Tra inclusione ed esclusione. Per una sociologia del confine
Von Arturo Zilli

Prof.ssa Riccioni, da quali riflessioni nasce il Suo libro, edito da Carocci, “Per una sociologia dei confini. Spazio e identità nella società contemporanea”?
Il volume trae origine dalle molte ricerche che, nel corso degli anni, ho portato avanti per più di una quindicina d’anni nei territori di confine, in particolare in Alto Adige. Oggi le si può leggere in maniera diversa, come ricerche sul multiculturalismo, sulla convivenza tra culture, ma anche come culture e dinamiche di confine. Cerco di spiegarlo nel libro mostrando come la dimensione del confine cambia l’identità dei territori frontalieri. È un libro piccolo che però si propone di offrire una riflessione generale che spieghi come è cambiata la realtà sociale e dunque come l’osservazione sociologica abbia bisogno di una riflessione sulle proprie categorie di analisi.
Il libro ambisce ad aprire un nuovo campo di indagine, almeno in Italia?
È un inizio, una riflessione embrionale che vuole essere una premessa a ulteriori indagini. Infatti, mentre un tempo la sociologia del territorio si occupava delle “frontiere”, oggi, in seguito all’accordo di Schengen e la globalizzazione, le dinamiche e l’influenza dei territori di confine sulle governance e le decisioni degli Stati sono cruciali. Tutto questo dovrebbe trovare una riflessione adeguata negli studi e sulle categorie in uso nella sociologia contemporanea. Inoltre, il concetto di confine riguarda la nostra epoca in tutti i suoi aspetti: confini tra discipline, tra generi, geografici, tra realtà fisica e virtuale. Una lettura sociologica contemporanea non può ignorare questa trasformazione radicale che investe i paradigmi e i concetti a partire dalla definizione di confine.
Lei parla di “confini funzionali”. Cosa intende?
È l’idea che i confini non siano più statici ma che vengano eretti o annullati a seconda delle contingenze. Pensiamo ad esempio agli anni del Covid, quando abbiamo rivisto alzarsi frontiere laddove per anni erano state abolite. Esistono quindi confini che sulla carta non esistono più, ma che vengono funzionalmente riproposti a seconda di chi deve valicarli: per alcuni c’è un certo tipo di apertura, per altri soggetti meno, in base alla provenienza, penso ai migranti, ma anche in base alle condizioni economiche. Il problema dei confini adesso si è trasferito nei Paesi al limitare dell’Europa unita. E ciò va a confliggere con le realtà locali che si sono ritrovate a fare i conti con spazi – si pensi al mare per le comunità costiere dell’Italia del Sud – che mai prima d’oggi sono stati vissuti come confini - e perlopiù conflittuali - come invece lo sono al giorno d’oggi.
Ci sono esempi oggi di confini che non sono sinonimo di conflitto ma in cui nascono culture di convivenza?
Nel libro parlo dei border studies, studi nati e consolidatisi al confine tra Messico e Stati Uniti, dove nel tempo si sono sviluppate pratiche culturali meticciate, penso al Texas che è un territorio fortemente latinizzato. Ci sono poi spazi di rielaborazione culturale, ad esempio in Polonia c’è una Fondazione che tramite le arti e teatro lavora sulla rielaborazione delle esperienze traumatiche di chi vive al confine per creare intrecci nella direzione di una "terza cultura” meticciata che superi in termini culturali il confine normativo.

L’identità delle persone che vivono sul confine o che vi nascono e crescono, è sospesa tra due poli?
Dipende da come vengono elaborati questi spazi di confine. L'identità è un processo continuo di rielaborazione di sé stessi e del proprio passato. Se ci sono dimensioni normative che impediscono una processualità, si crea uno stallo identitario. Se invece c'è una dimensione culturale aperta, capace di confrontarsi con ciò che accade, l’identità evolverà con i processi che si innestano nel tempo e generalmente questa diversità culturale intrecciata tende a favorire crescente ricchezza culturale.
C’è però anche la posizione, legittima di chi sostiene: "Io vivo qui, ho una cultura a cui tengo, e non mi interessa integrarmi". Lei come risponde a quest’obiezione?
Si risponde che nessuno si salva da solo. Le culture, se non hanno linfa vitale, appassiscono e muoiono. Le riserve indiane sono forme turistiche ma anche realtà di sofferenza, di perdita di senso. Una cultura ha bisogno di confrontarsi con il presente, anche a scapito della "purezza". Come dice James Clifford in "I frutti puri impazziscono", nessuna cultura può rimanere isolata e restare vitale. È dal confronto con l'altro che si cresce. Le identità forti sono quelle che si confrontano, raramente quelle che si proteggono. È come il corpo umano: se è troppo protetto, diventa fragilissimo. Le culture sono organismi viventi che si nutrono della diversità, ci viene incontro su questi temi lo studio di John Stuart Mill che nel 1859 pubblicava “On Liberty”. Mill si chiedeva a quali condizioni le diverse forme di convivenza generano società dinamiche progressive o statiche e conservatrici. La capacità di una società di mantenere l’individualità dei suoi membri, piuttosto che il loro livellamento, causerebbe un processo progressivo della società stessa, scrive Mill. Diversamente, una società che tende al livellamento dei suoi membri diviene una società statica. In altre parole, Mill osservando il processo sociale del potere di livellamento della società cinese e comparandolo con la ricchezza di diversità europea, si chiede: “cosa abbia fatto della famiglia delle nazioni europee una parte progrediente piuttosto che statica dell’umanità”? E si risponde attraverso l’osservazione della “notevole diversità” che i paesi europei hanno sviluppato nel processo verso il progresso, in virtù non di una volontà di assimilazione ma piuttosto di mantenimento della diversità, seppure nella prossimità. Potremmo dire, proprio nella diversità degli stati nazione, che oggi si riconoscono nella comunità europea, si è costituito il terreno favorevole ad un processo progressivo e di ricchezza culturale.
Foto: Nils Huenerfuerst su unsplash
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