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Economia circolare: non sempre significa maggiore sostenibilità

Una ricerca internazionale di unibz rivela: senza una pianificazione accurata, riuso e riciclo possono addirittura aumentare le emissioni. Solo il redesign dei prodotti le riduce.

By Editorial Team

Due persone in posa davanti all’ingresso della Facoltà di Ingegneria della unibz.
La ricercatrice Margherita Molinaro e il prof. Guido Orzes della Facoltà di Ingegneria. Foto: unibz

Da più di un decennio l’economia circolare viene descritta come la svolta green dell’industria: meno rifiuti, meno materie prime, più recupero e più efficienza. Molti governi la citano come strada maestra per raggiungere gli obiettivi climatici e la neutralità carbonica e l’Unione europea è al lavoro per una legge sull’economia circolare entro il 2026. Ma una ricerca internazionale guidata dall’Italia lancia un alert: questo tipo di economia non sempre riduce le emissioni ma, talvolta, se non applicata correttamente, rischia di avere un impatto ambientale negativo.

La ricerca mette per la prima volta a confronto migliaia di imprese reali, in diversi continenti, per vedere cosa funziona davvero e fornisce un risultato controintuitivo: l’economia circolare non garantisce, di per sé, un minor livello di emissioni. Lo studio è stato realizzato dalla ricercatrice Margherita Molinaro e dal prof. Guido Orzes (unibz) insieme al prof. Joseph Sarkis della Worcester Polytechnic Institute (USA), tra i massimi esperti al mondo di sostenibilità delle supply chain, e pubblicato sulla rivista Business Strategy and the Environment. Ha analizzato 1.599 imprese manifatturiere attive in 51 Paesi e 21 settori industriali, ricostruendo tramite dati secondari emissioni e pratiche circolari per un orizzonte temporale di 8 anni.

I risultati della ricerca, sviluppata all’interno del progetto SME 5.0 finanziato dall’Unione Europea, confermano che l’economia circolare può produrre benefici climatici significativi, ma non in modo automatico. Le imprese che puntano sul redesign dei prodotti – usando meno materiali, componenti più leggeri, processi più efficienti, maggiore riparabilità e durata – mostrano livelli più bassi sia di emissioni dirette sia di quelle legate all’energia acquistata. Dove la circolarità è progettata a monte, l’impatto sul clima è misurabile e positivo.

Diversa la situazione per riuso e riciclo, spesso percepiti come soluzioni universali e immediatamente sostenibili. In molti casi, l’analisi evidenzia una correlazione positiva con le emissioni di filiera. Trasportare prodotti usati, selezionarli, trattarli e reintrodurli sul mercato richiede logistica inversa, energia aggiuntiva e processi industriali che non sempre garantiscono un bilancio climatico favorevole. In altri termini, il recupero non è automaticamente più sostenibile della produzione primaria: dipende da distanze, tecnologie, mix energetico e organizzazione della supply chain.

Una transizione che pesa sull’economia. Il tema non è solo ambientale. Secondo la Commissione Europea, la circolarità può generare 700.000 nuovi posti di lavoro entro il 2030 e ridurre del 15–20% la dipendenza dell’Unione dalle materie prime importate. In Italia, che oggi ricicla circa il 72% dei rifiuti speciali e oltre il 55% degli urbani, la filiera vale già più di 90 miliardi di euro e coinvolge centinaia di migliaia di addetti. Ma il potenziale economico dipende dall’effettiva riduzione delle emissioni: se i processi non diventano più efficienti e meno energivori, il vantaggio industriale rischia di fermarsi.

La ricerca unibz-WPI apre dunque una prospettiva più matura. L’economia circolare resta una delle principali strade per la transizione ecologica, ma non basta applicarla: occorre capire quando conviene, come conviene e quali condizioni la rendono davvero utile al clima. In assenza di questi elementi, la circolarità rischia di creare benefici solo apparenti o, nel peggiore dei casi, di spostare le emissioni da una fase della filiera all’altra.

«Ci aspettavamo una conferma generalizzata delle promesse della circolarità, invece emergono molte sfumature - spiega la ricercatrice di unibz, Margherita Molinaro - La circolarità è fondamentale, ma va fatta bene: se la trattiamo come una ricetta magica, rischiamo di illuderci. Senza infrastrutture efficienti, energia rinnovabile e tecnologie adeguate, la promessa della circolarità rischia di tradursi in un vantaggio ambientale minore del previsto. Se invece la progettiamo con metodo, può diventare una leva concreta per ridurre l’impatto sul clima».

“La conclusione  - aggiunge il prof. Guido Orzes di unibz - è che l’economia circolare funziona quando è progettata, misurata e integrata con dati affidabili, non quando è utilizzata come semplice etichetta. Senza progettazione intelligente e infrastrutture adeguate, anche le pratiche più virtuose possono perdere efficacia”.

A questo si aggiunge un’altra questione: misurare davvero la circolarità è ancora difficile. In un secondo studio pubblicato su Sustainable Production and Consumption, gli stessi professori di Bolzano, in collaborazione con la ricercatrice Beatrice Bais, hanno confrontato quattro dei principali strumenti europei utilizzati dalle imprese per valutare la propria circolarità. Gli strumenti aumentano consapevolezza e pianificazione, ma non offrono valutazioni oggettive e confrontabili. Le differenze tra settori, le interpretazioni soggettive e la scarsa trasferibilità dei risultati rendono complesso capire quali aziende siano realmente circolari e quali no. Da qui la necessità di indicatori più solidi, analisi di ciclo di vita e standard comuni.

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